mercoledì 5 agosto 2015


«...Perché al giorno francamente non ci tenevo, e quanto a mia madre potevo sperare che lei mi aspettasse ancora, dopo tanto tempo? E la gamba, le gambe. Ma le idee di suicidio facevano poca presa su di me, non so più perché, credevo di saperlo, ma mi accorgo che non è così. L’idea dello strangolamento, in particolare, pur così allettante, l’ho sempre superata, dopo una breve lotta. Vi dirò una cosa, non ho mai avuto niente alle vie respiratorie, a parte naturalmente le miserie inerenti a questo sistema. Sì, le volte in cui l’aria, che contiene dell’ossigeno, pare, non voleva più scendere dentro di me, né, una volta discesa, lasciarsi espellere, potrei contarle, avrei potuto contarle. Ah sì, la mia asma, quante volte sono stato tentato di mettervi fine tagliandomi la carotide o la trachea. Ma ho tenuto duro. Il rumore mi tradiva, diventavo viola. Mi prendeva soprattutto di notte, cosa di cui non sapevo se dovevo essere contento o scontento. Perché di notte, se è vero che i bruschi cambiamenti di colore hanno minor rilevanza, per contro il minimo rumore insolito si fa notare di più, per via del silenzio della notte. Ma queste erano soltanto delle crisi, e son poca cosa, le crisi, in confronto a tutto ciò che non si ferma mai, che non conosce flusso né riflusso, dalla superficie plumbea, dalle profondità infernali. Non una parola, neanche una parola contro le crisi che m’afferravano, mi torcevano e infine graziosamente mi mollavano, senza denunciarmi a terze persone. E m’avvolgevo il cappotto intorno alla testa, il che soffocava il rumore osceno del soffocamento, oppure camuffavo quest’ultimo in accesso di tosse, universalmente ammesso e approvato, e il cui unico inconveniente è che rischia di suscitare la compassione. E forse è giunto il momento di far notare, meglio tardi che mai, che, dicendo che il mio procedere era più lento, in seguito al cedimento della gamba buona, non esprimo che una minima parte della verità. Perché in verità avevo altri punti deboli, qua e là, che divenivano anch’essi sempre più deboli, com’era prevedibile. Ma a non essere prevedibile era la rapidità con cui la loro debolezza aumentava dopo la mia partenza dalla riva del mare. Perché finché ero rimasto in riva al mare i miei punti deboli, pur aumentando in debolezza, come c’era da aspettarsi, aumentavano solo insensibilmente. Per cui avrei avuto notevoli difficoltà ad affermare, per esempio tastandomi il buco del culo, Toh, va molto peggio di ieri, non si direbbe più lo stesso buco. Mi scuso di tornare ancora su questo vergognoso orifizio, è la mia musa che l’esige. Forse bisogna vedervi non tanto la pecca che viene nominata quanto il simbolo di quelle che taccio, dignità dovuta forse alla sua centralità e alle sue arie di intermediario tra me e l’altra merda. Lo si misconosce, secondo me, questo piccolo buco, lo si chiama buco del culo e si ostenta disprezzo. Ma non sarà piuttosto la vera porta principale dell’essere, del quale la celebre bocca sarebbe solo l’entrata di servizio? Nulla vi penetra, o così poco, che non ne sia respinto sull’istante, o quasi. Quasi tutto quello che gli giunge da fuori gli ripugna, e per quello che gli giunge da dentro non si può dire che si dia molto più da fare. Non sono cose significative? Il tempo giudicherà. Ma cercherò ciononostante di concedergli un po’ meno spazio in futuro. E mi sarà facile, perché il futuro, non parliamone, non ha proprio nulla d’incerto. E se si tratta di lasciar da parte l’essenziale, credo di sapere il fatto mio, e tanto più in quanto sul fenomenico possiedo solo informazioni contraddittorie...»

giovedì 30 gennaio 2014

I tratti slavi erano più accentuati, su quel letto di qualche ora: gli zigomi più alti, gli occhi più tagliati. Gli occhi chiusi.
Tutte le cose che mi vengono in mente. Il contegno arcigno che non era vero. La casa di Sant’Alessandro e la scala di legno; il giardino, noi in veranda. Le caramelle nascoste nel mobile della sala, che io trovavo (ma mica ne prendevo più di due o tre). La televisione dal divano girato dalla parte opposto, arrampicato, il sabato sera: i Puffi, il Drive In, e poi Didomenica. Buck e Cooper. La mamma sui gradini ed i grandi cambiamenti: una specie di adolescenza lunga, quasi rubata prima e poi durata tutta la vita. I cappelli pelosi e lo sguardo severo quando li mettevamo noi. La mano per grattare la schiena, come di Fatima, conservata insieme al calzascarpe. La determinata, cocciuta, generosa perseveranza. Le tue preghiere per noi: chissà cos’hanno fatto; per me ci hanno stretto al tuo pensiero, che ci ha avvolti.
La tua borsa marrone, lì in terra, stamattina. I vestiti che la mamma ti ha messo ai piedi del letto. Intonati, mi sembrava. Le lacrime silenziose di papà. Le mie, lente, adesso.

martedì 14 gennaio 2014

La libertà e la paura

Stamane ho avuto una discussione con alcuni colleghi. Tutto è nato dalla considerazione di una di essi, già esplicitata in altre occasioni, sulla convenienza (per lei) dell’apertura dei supermercati alla domenica.
(La logica di fondo è quella della sopravvivenza a scapito degli altri: poiché il padrone mi impone orari di lavoro estenuanti, che non mi consentono di fare la spesa nel tardo pomeriggio, vado a farla la domenica; e poco importa se qualcuno dovrà lavorare per far sì che ciò sia possibile.)
Come in passato, ho fatto ironicamente notare che anche i lavoratori del supermercato saranno senz’altro felici, come lei, dell’apertura.
Un altro collega è allora intervenuto, sostenendo che questa è la vera libertà: poter decidere di lavorare la domenica, oltretutto per una retribuzione superiore. Ho ribattuto che non è libertà, ma proprio il contrario. Cioè la coercizione dettata da un sistema nel quale siamo costretti a muoverci; un sistema basato sul denaro. Che abortisce le relazioni tra individui a favore del profitto (di pochi). Mi è stato detto, in risposta, che il monte ore rimane sempre lo stesso (nota: altissimo, e spesso comprendente straordinari non corrisposti). Insomma, se uno lavora la domenica, sarà libero il martedì. Ho fatto notare, di nuovo, che se la maggior parte delle persone riposa la domenica e lavora il martedì, difficilmente chi fa il contrario potrà coltivare le sue relazioni ed i suoi affetti. Mi è stato allora detto che chi lavora la domenica e sta a casa il martedì costruirà nuovi rapporti con chi avrà gli stessi ritmi. (Così anche e amicizie saranno determinate, indirettamente, dal padrone.) Una nuova definizione di società fluida, insomma.
Io penso invece che il nostro unico vero capitale personale sia il tempo. Che la libertà sia poter decidere come destinarlo. E che la sua mercificazione, per giunta a basso costo, sia un soffocante capestro sociale che ci sta rendendo brutti, tristi, meschini, spaventati. Nelle parole e nei toni dei miei colleghi, sempre più agitati via via che la discussione divampava, ho letto paura. Altro che libertà. Ho letto l’ansia di dover sostenere, prima di tutto a se stessi, che va tutto bene così: perché ammettere che un modo migliore esiste ed è davvero applicabile farebbe crollare il fragile castello costruito con le deboli certezze della consuetudine. Ho percepito una frustrata, pigra rassegnazione: l’anticamera della resa. Li ho compatiti, per un istante. Poi ha prevalso l’urticante fastidio procurato dalla loro ignavia.
Ed ho pensato: se il terreno è questo, ne usciremo mai? Non sono sicuro di volermi rispondere.

mercoledì 28 agosto 2013

Ma io sono stato dove tu mai

Sembrava proprio un topo. Ne aveva tutta l'aria sgattaiolante, sebbene caracollasse un poco. Un topo troppo grassoccio, poco atletico, non del tutto a suo agio sulle zampe. Appena troppo signore per trascinare il ventre pallido sull'asfalto lucidino rossastro. Grassoccio, ma con una incerta dignità.
Ma era un topo cicciottello solo da lontano: da vicino si presentava invece come un imbarazzatissimo e altrettanto spaesato riccio: un porcospino di città che stava sbagliando ciclabile. Smarrita la strada per il giardino; stop; inviare frutta fresca a fermo posta corso alpini; stop; emergenza assoluta pericolo cicli; stop; fortunatamente scarsità pedoni. Stop.

lunedì 15 luglio 2013

Eboli night

Battipaglia. Un'ora di strada a piedi nel vuoto, dove nel '69 gli operai avevano fatto i compagni. Mi convinco che un centro di Battipaglia, benché indicato dai cartelli, non esista; che non sia sopravvissuto alla ragione dei compagni operai?

All'atterraggio le luci di Napoli, come fosse sabato sera, ma è domenica. Notte, quasi. E in lontananza, moderata, piccoli fuochi d'artificio per party privato, non badare a spese, invitare numerosi coetanei, possibilmente far esibire neomelodico dopo comunione prima di festa camorra. I compagni operai disapprovano e tentano sabotaggio con estintore. 

Linguine tonno e finocchietto, presumibilmente ex selvatico, e salmone al vino rosso. Generosa falanghina, per bilanciare. 
I miei vicini di tavolo, mentre ci ripenso, vuotano svogliatamente i piatti. Mantovani, moderatamente. Maglietta blu, pantaloni chiari, infradito insolenti; molta tempia, resto ingellato, poche parole negli spazi - pochi - lasciati dal commensale: labbro inferiore pronunciato, righe rosse e grigie su bianco, jeans scuro, blu, senza forma. Adidas particolarmente inadeguate fasciano calze nere che hanno conosciuto il mercato. Forse in senso biblico. Fuori da quei famosi pochi spazi, si narra di genitori che hanno sbagliato impianti elettrici; sorelle che non vogliono cambiare casa; cene aziendali con l'Elvira, Simone che mette la macchina e una ragazza un po' in carne che gli fa la posta. Qualcun altro parla inglese. I believe, I remember that, so is more relaxing.

Parte l'irrigazione, alle mie spalle, o qualcosa del genere. Zanzare impavide mi aggrediscono mentre affronto senza remore una timida macedonia. 
C'è pure uno che consulta la bussola su iPhone, forse per non perdersi neppure una portata. 
È una notte in Italia: lo vedo questo taglio di luna, solido e penetrante il palmizio e il chiacchiericcio di circostanza. Sottofondo, night club stile Serpico. 
Ritirarsi nelle proprie stanze. 

sabato 4 maggio 2013

Pensieri del passato: la tenerezza del tentativo


Commento ad uno dei testi scelti per il test Invalsi somministrato ai ragazzi della prima media. «Il contenuto è accattivante perché parla di grotte e orsi, due elementi che possono attirare l’interesse e la curiosità dei giovani studenti». Il tentativo, legittimo, meritorio e infine dolce, di “accattivare”, secondo le chiavi di lettura dell’adulto: e dall’altra parte i ragazzini: quelli come me, che cercavano di trovare interessante qualsiasi cosa; e gli altri, più numerosi e certamente meno ben disposti.

mercoledì 24 aprile 2013


«Maggior generale?» diceva, commiserandosi. E l'umore gli peggiorò: pensò con l'amaro in gola a tanti altri, incomparabilmente meno geniali e meno anziani di lui, teste di cazzo di prima scelta, diceva lui, che avevano già due righe sopra la greca. Egli, almeno, il dover suo l'aveva fatto sempre con ogni scrupolo: tutte le circolari di servizio in arrivo venivano distribuite con puntualità «a tutti i reparti dipendenti», in busta gialla, con i timbri richiesti dalle circostanze: la disciplina non potevano certo lamentarsi: disertori due, in tre mesi, licenze speciali sette od otto, casi di tifo una quarantina a far tanto, i capelli rasi a macchina, trentacinque barbieri al lavoro: che pretendevano di più? Che sparasse lui la mitraglia? Che «avesse dell'iniziativa» quando gli comandavano di star fermo e di tener duro, coi suoi quattro reggimenti sepolti e impastati nella melma delle por fosse?
Altro che una divisioncella ci voleva, per sfondar Cecco Beppe. E d'altra parte, vediamo un po', i suoi ordini eran chiari, ponderati e innocui: i contrordini pronti, circostanziati e superflui.

(C.E. Gadda, "La meccanica")